Il nostro Corrado, il notaio ad alto grado, è stato recentemente a Torino per uno di quei pomeriggi che al confronto i tour dei Rolling Stones al confronto erano salutari raduni di yoga e mindfulness, ovvero la seconda edizione del Ring of Malt all’enoteca Parlapà del più grande di tutti, Mauro Risso. Un pomeriggio di assaggi a nastro con quella splendida e innata incoscienza che solo gli appassionati di questo distillato possono sfoggiare. Hanno bevuto il mar Ligure di single malt, ma siccome Corrado è anche un generoso allo stato brado, qualche samples è arrivato a Milano. E noi ringraziando recensiamo. Partiamo con i primi tre.

Single Highlands malt 13 yo ‘Scented candles’ (1992/2005, Wemyss, 46%)
Partiamo forte, partiamo con una distilleria come Clynelish. Il barile 4.02 è stato selezionato da Wemyss per la serie Vintage Malts e ha dato 305 bottiglie. C: vino bianco chiaro. N: fresco e leggero, con una nota di cassetto chiuso della biancheria che prende subito il comando dell’olfatto. Molto cereale, o meglio molto fienile, sa di granaio più che di grano. Limone, zenzerello e uva spina. Kiwi anche. E un senso di polvere agrumata. Qualche screziatura minerale, come di freni della bici. Cera e olio di sesamo. P: affilato, per nulla dolce, dritto come un fuso. Whisky vertical, diremmo. Pesca, cedrata, il legno fa il suo mestiere. C’è un accenno iniziale di cremosità che presto si trasforma in severità, con addirittura una sfumatura di grafite. Minimale, preciso. Vaniglia lieve, sale in crescendo. F: pepe bianco, arancia minerale di nuovo (il Polase!) e un che di olio lievemente ossidato.
Prototipo di whisky highlander molto nordico, schietto e scaccia-piacioni. Fa selezione, con il suo profilo secco e senza troppi compromessi. Non un prodigio di complessità. 85/100.

Clynelish 11 yo (1993/2004, Gordon & Macphail for Glu Glu 2000, 57%)
L’hogshead 10281 è stato imbottigliato dal Glu Glu club di Mauro Leoni nel 2004 e ha dato 282 bottiglie. C: vino bianco. N: più puzzettoso rispetto al Clynelish precedente: olio motore subito, limoni dimenticati nel frigo e ammuffiti, zolfo leggero, tipo anticamera dell’inferno, non proprio inferno. La frutta è poca, agrumi vari, forse un che di albicocca acerba. Dritto con un filo di fumo e un senso come di grasso di prosciutto ingiallito. Questo tocco tra lo sporco e l’umami ci esalta. P: che impatto, che sberla. Una bella oleosità ci fa gli onori di casa: nocciole amarognole, carta vecchia e un senso di tostatura profondo. Anche qui il senso di polvere da sparo si mescola alla crema cotta, in un gioco suadente. Più largo rispetto all’altro Clynelish, la frutta è praticamente sparita, rimane l’orzo con un apparato di olii vari e noci altrettanto varie. F: la parte meno convincente, un filo amaro e non lunghissimo, ma di nuovo quel tocco fra il bruciato e lo sporchino. E sale qui e là.
Clynelish è unica perché può essere piuma o ferro, come la mano di Mario Brega. Qui siamo dalle parti del ferro, con una bella potenza di fuoco di venature “off”, tra gli ingranaggi e il sulfureo. L’alcol si sente soprattutto in bocca, ma non dà mai fastidio. Manca un po’ di profondità a dirla tutta, ma bene: 87/100.

Glenrothes 23 yo (1998/2022, Lady of the Glen, 42.9%)
Il refill barrel #17003 ha dato 106 bottiglie. C: vino bianco. N: dopo il Clynelish, sembra di entrare in paradiso. Nel senso della torta paradiso, ovviamente. Si apre molto leggero, fresco, con una puntina di solvente che si risolve subito in Tenerezze al limone, kumquat, olio essenziale di pompelmo e un filo di coriandolo. Mandorla fresca, ribes bianco. Anice, pane (anche lui fresco: la michetta ma con tanta mollica!), c’è anche qualche suggestione erbacea che ricorda il rhum agricole. Ananas anche, naso molto piacevole. P: l’ingresso è un po’ debolino, ma senz’altro gradevole. La parte citrica si ripresenta (limonata), con un accenno di resina. Anzi di retsina, quasi, ma senza quella parte del vino. Levistico e cumino dei prati, comunque spezie erbacee. E pepe bianco. C’è la dolcezza del bourbon cask, che parte dalla vaniglia e arriva alla pasta di mandorle, anche se non si arriva al livello zuccherino del marzapane. Qualcosa di pesca, più di qualcosa di liquirizia ripiena, più di più di qualcosa di erbaceo: quasi marijuana. Nel secondo palato un eccesso di alcol non giustificato dalla gradazione. F: non lungo, ancora resinoso e amarognolo, con il legno in crescendo insieme alla salivazione.
Il naso la parte più convincente, mentre al palato l’ingresso un filo acquoso e la virata sull’amarognolo finale non ci fanno impazzire. Detto questo, un dram primaverile con un finale più severo del previsto. Buono, ma da un 23 anni ci aspettiamo di più. 85/100.